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L’Europa e i sogni di SPAC

Daniele D’Alvia e Andrea Borroni: in un tessuto come quello italiano basato su imprese di medie dimensioni e nel quale si registra una cronica chiusura verso i mercati finanziari, gli strumenti di finanza più avanzati come le SPAC rappresentano senz’altro un veicolo per favorire il successo dell’eccellenze imprenditoriali
Alla fine del 2020, 248 Special Purpose Acquisition Company o SPAC sono state quotate negli Stati Uniti (primariamente sul NYSE e sul NASDAQ) per una capitalizzazione complessiva di 83 miliardi di dollari. Già nei primi quattro mesi del 2021, le SPAC però hanno superato la precedente soglia raccogliendo 98 miliardi di dollari: ciò pone le SPAC al centro dell’attenzione degli investitori e dei professionisti che operano a Wall Street. Ma tale onda di successo e interesse si ripercuote anche al di là dell’Atlantico e ha ormai raggiunto le coste dell’Europa e dell’Italia, in particolare.

Come noto, la SPAC è un veicolo d’investimento di ultima generazione, creato con il fine di raccogliere capitale in vista di una futura acquisizione di altra società (non quotata) e di raggiungere in breve tempo l’ammissione sui mercati regolamentati o su sistemi di scambio multilaterale.
Tra i pregi di questa costruzione finanziaria, figura senz’altro la semplicità del funzionamento: gli sponsor iniziali dell’operazione combinano le proprie risorse per costituire una società di capitali che appare come una “scatola vuota” dotata esclusivamente di cassa, la quale, ammessa poi alla quotazione, cessa la propria esistenza se la “business combination” si traduce in una incorporazione nella società target per fusione inversa; oppure, se si effettua un’operazione di acquisizione, diviene operativa con modifica dell’oggetto sociale.

La SPAC ha scopi essenzialmente finanziari ed è di prassi promossa da un gruppo di investitori che creano la società ed entrano negli organi sociali, apportando una quota di capitale di rischio pari ai costi per sostenere l’offerta pubblica iniziale e quelli indispensabili per il funzionamento della società, che si stimano all’incirca pari al 3-3,5% della dotazione finanziaria totale.
Convenzionalmente, al mercato verranno offerte azioni al prezzo di 10 dollari o euro cadauna. La stessa speditezza si rinviene per ciò che attiene la durata della SPAC che, nel modello tradizionale, è limitata a ventiquattro mesi, trascorsi i quali o si finalizza un’acquisizione con una società target oppure si procede alla messa in liquidazione.

Analizziamo brevemente le due ipotesi.
Nel caso in cui la business combination avvenga, si verifica la fusione anche di due gruppi imprenditoriali: quello costituito dagli sponsor della SPAC e dai successivi investitori, da un lato, e quello della società target, dall’altro lato. A seguito della fusione, rimarrà una sola società che si troverà a essere quotata in Borsa. La SPAC, che fino al momento della fusione è di fatto rimasta inoperativa, una volta che la procedura di acquisizione verrà completata, avvierà il proprio piano industriale e sarà sottoposta agli stessi obblighi a cui è sottoposta qualsiasi altra società quotata.
Per la precisione, gli investitori della SPAC, una volta informati della possibilità di concludere la fusione a certe condizioni, potranno optare tra il far parte della nuova compagine sociale o il riprendere il capitale investito, che fino al momento della fusione viene segregato in un conto protetto (sul modello del conto escrow). Infatti, le somme investite al momento della sottoscrizione in fase di collocamento sono indisponibili e vincolate in un conto fruttifero presso una banca terza.

In alternativa, non mancano casi in cui vengano sottoscritti titoli di Stato con scadenza a brevissimo termine, rimanendo comunque sempre vincolati. In altre parole, gli amministratori della SPAC non possono accedere a questi fondi se non quando si concretizza la business combination, riducendo così al minimo il profilo di rischio dell’investimento e la perdita, limitata al costo opportunità o alla mancata percezione degli interessi (voce oggi più di scuola che effettiva).
A ciò si aggiunga che, il management fee attribuito ai promotori/sponsor, a differenza delle operazioni di private equity, si manifesta nella forma di una partecipazione azionaria al momento della business combination, una sorta di premio per il successo dell’operazione che funge da ulteriore garanzia per gli investitori sulla serietà, capacità e buona fede degli sponsor.
Nel caso in cui, invece, nel termine di cui allo statuto non si riuscisse a combinare un matrimonio societario, e non si procedesse a una proroga, il capitale raccolto verrebbe restituito agli investitori.

Il modello appena descritto è applicato e conosciuto ovunque. A seconda dell’ordinamento dei vari paesi, cambiano solo i requisiti per la quotazione, la struttura societaria e le dinamiche di corporate governance, nonché la possibilità di riscatto delle azioni (che dipende dalla disciplina del diritto di recesso nazionale).
In Europa, la presenza di 27 diversi ordinamenti giuridici in competizione tra loro offre la possibilità di accedere a cornici normative diverse, espressione di soluzioni originali che sono in concorrenza le une con le altre. Ciò rappresenta, senza ombra di dubbio, una ricchezza per gli investitori che volgono il loro sguardo all’Europa perché possono cercare una veste giuridica che più soddisfi i propri interessi.
L’Italia e Borsa Italiana non si sono sottratte alla sfida; qui, infatti, è forte il dibattito circa la possibilità di promuovere le cosiddette Micro o Mini SPAC, che mirino a raggiungere cifre di capitalizzazione più ridotte rispetto a quelle raccolte finora dalle SPAC che si sono quotate.

Ciò si contrappone in maniera netta alle scelte, ondivaghe, operate in Inghilterra. Qui, a marzo di quest’anno, il London Stock Exchange ha divulgato un Report della Commissione tecnica presieduta da Lord Jonathan Hill sulla possibile riforma del mercato finanziario interno e, ad aprile, la Financial Conduct Authority ha reso noto il proprio Consultation Paper, nel quale si richiederebbe per le SPAC una capitalizzazione minima di 200 milioni di sterline.
Qualora tale scelta di politica legislativa finanziaria venisse portata fino in fondo, le SPAC di media dimensione virerebbero altrove, e l’Italia si troverebbe all’avanguardia.
In fondo, le prassi di mercato contano, ma a volte la loro regolamentazione incide ancor di più.
Negli Stati Uniti, gli sponsor acquistano le prime azioni della SPAC (founder shares) per l’equivalente del 20% – 25% della società a un valore nominale di soli 25.000 dollari.

Ma ciò non rappresenta tutta la storia. Infatti, oltre a questo investimento, gli stessi sponsor investono l’equivalente del 2% delle somme da raccogliere nell’offerta pubblica dei titoli della SPAC comprando warrant, e ciò rappresenta il vero capitale di rischio.
Inoltre, non è raro che gli stessi sponsor investano al momento dell’acquisto con ulteriori somme per concretizzare la fusione inversa.
Per esempio, Chamath Palihapitiya, ex amministratore di Facebook, ha investito oltre 100 milioni di dollari in Virgin Galactic a un costo di 10 dollari ad azione quando la fusione si era perfezionata. Infine, alcuni sponsor oggi allineano la loro quota di partecipazione cedendone parte agli azionisti della target, riducendo così quel 20% iniziale al 15% o al 10%.
In aprile negli USA, la Securities and Exchange Commission ha annunciato che i warrants devono essere trattati in bilancio come passività e non come assets. Questa novità, pur non essendo ancora specificato il momento di entrata in vigore, ha causato un rallentamento nel mercato delle SPAC; i numeri, tuttavia, rimangono ancora molto importanti, come facilmente reperibile dai siti ufficiali di NASDAQ e NYSE.

In Europa, le SPAC sono state legittimate a tal punto da essere percepite come un’alternativa al processo di quotazione ordinario anche se non esistono ancora formule e indirizzi pre-codificati relativi alla percentuale di azioni riservate agli sponsor (il Promote) come premio per il loro apporto.
Si pensi al caso del noto imprenditore inglese Ian Osborne, manager di Hedosophia, che sta programmando una quotazione su Euronext per 400 milioni di euro, seguendo il percorso delle SPAC europee di più grandi dimensioni (dopo le recenti quotazioni di ESG Core Investment ad Amsterdam per 250 milioni di euro, Lakestar SPAC I SE a Francoforte per 275 milioni di euro, e Revo S.p.A. in Italia per 220 milioni di euro. Mentre negli Stati Uniti, Bill Ackman ha costituito una SPAC con una capitalizzazione pari a 4 miliardi di dollari).

Osborne ha ideato un sistema di remunerazione per la partecipazione dello sponsor nella SPAC calibrato sulla creazione di valore per gli investitori. Infatti, Hedosophia avrà una partecipazione iniziale del 10%, destinata a crescere del 5% ogni volta che le azioni della SPAC dovessero salire progressivamente dal prezzo iniziale di 10 euro ad azione fino a raggiungere il valore di 20, 25, e 30 euro ad azione.
Questa soluzione molto innovativa rappresenta un ulteriore momento di attrazione per i potenziali investitori e si colloca in linea con i desiderata del mercato.
In conclusione, in un tessuto come quello italiano basato su imprese di medie dimensioni e nel quale si registra una cronica chiusura verso i mercati finanziari, gli strumenti di finanza più avanzati come le SPAC rappresentano senz’altro un veicolo per favorire il successo dell’eccellenze imprenditoriali italiane; soprattutto oggi che si cercano soluzioni per uscire dalla crisi e, in generale, in momenti in cui la redditività del denaro cerca nuove opzioni di impiego.

Avv. Daniele D’Alvia, CEO e fondatore di SPACs Consultancy e Prof. Avv. Andrea Borroni, Diritto Comparato presso la Università della Campania Luigi Vanvitelli

Fonte dell’articolo Business Community

www. https://www.businesscommunity.it/m/20210609/economia/l-europa-e-i-sogni-di-spac.php